GASPORT (A. SCHIANCHI) - Si stava meglio quando si stava peggio? Forse no, però, almeno nel calcio, i ricchi erano meno ricchi e i poveri meno poveri. La forbice tra i redditi alti e quelli bassi era sicuramente più equilibrata rispetto a oggi. Prendiamo lo stipendio di un fuoriclasse del Dopoguerra, diciamo Valentino Mazzola: nel 1946 percepiva dal Torino un ingaggio mensile di 80 mila lire (41,31 euro).
Un operaio dell'epoca portava a casa 15 mila lire. Il rapporto era dunque di 5,3 a 1. Mazzola, cioè, guadagnava 5,3 volte in più rispetto al signor Bianchi che lavorava alla catena di montaggio della Fiat. Che succede oggi?
E' presto detto: Ibrahimovic, fuoriclasse paragonabile al Mazzola del Dopoguerra, si mette in tasca 920 mila euro al mese; un operaio se la deve cavare con 1000 euro. Il rapporto è quindi di 920 a 1. La sproporzione è evidente ed è difficile giustificarla con i ricavi che garantiscono i campioni attuali: se fosse così remunerativo avere un top player alle proprie dipendenze i bilanci delle società non sarebbero costantemente in rosso. Sia chiaro, tuttavia, fin da subito: non è colpa dei calciatori se guadagnano cifre astronomiche. Loro chiedono legittimamente e le società accettano: è un diabolico patto a due.
Incrementi Tornando all'anno 1946, non si può certo dire che Valentino Mazzola non fosse un privilegiato. Abitava in un appartamento di extralusso, aveva una bella automobile e tutti gli agi possibili. Tenete presente che nel 1946, in Italia, circolavano poco meno di 150 mila macchine e il mezzo di locomozione più utilizzato era ancora la bicicletta. Il Paese era in gran parte agricolo, c'erano lotte tremende tra contadini e mezzadri, scioperi, battaglie di piazza. Il prezzo della guerra appena terminata era alto da pagare, le famiglie normali mangiavano la carne una volta alla settimana, non andavano certo al ristorante, né in vacanza. Insomma, anche a quel tempo la differenza tra un calciatore e un uomo del popolo era molto evidente. Ma non così evidente come oggi. Un chilogrammo di pane, ad esempio, costava 45 lire (0,02) e da allora è aumentato fino a 1,2 euro: un incremento di 60 volte, mica di 920 come lo stipendio di Ibrahimovic rispetto a quello di un operaio.
Primo professionista Facile cadere nella demagogia, quando si trattano simili argomenti. Allora si deve ricordare che il calcio, da sempre, è una macchina che viene mossa dal denaro. Il primo giocatore professionista fu Virgilio «Viri» Rosetta: nel 1923 passò dalla Pro Vercelli (dove non percepiva una lira) alla Juventus del senatore Giovanni Agnelli per la somma di 50 mila lire. A lui, che era pure ragioniere e a cui assicurarono un impiego (fittizio) in una fabbrica, andarono mille lire al mese. Scoppiò uno scandalo per le cifre che erano in ballo e perché c'era anche un'irregolarità nel contratto. Ma resta l'idea che quello fu il momento in cui il denaro entrò prepotentemente nel mondo del calcio. E da allora non lo abbandonò più. Per intenderci su quanto elevato fosse lo stipendio di Rosetta nel 1923, tenete presente che il testo di una canzone del 1939, cioè sedici anni dopo, recitava «Se potessi avere mille lire al mese...». Il Trio Lescano, gruppo musicale degli anni Trenta, metteva in cassaforte soldi a palate. Una delle componenti, Sandra Lescano, raccontò a Natalia Aspesi di Repubblica che nel 1939 guadagnava mille lire al giorno, quindi 30 mila lire al mese, quindi più del doppio rispetto a un operaio. La differenza tra l'ambiente artistico-sportivo e quello «normale», dunque, c'è sempre stata. Esisteva, però, un maggiore equilibrio.
Pozzo di saggezza Per capire il mondo del pallone e le sue storture si deve rileggere un saggio firmato più di mezzo secolo fa da Vittorio Pozzo, commissario tecnico della Nazionale campione del mondo nel 1934 e nel 1938. «Dirigenti privi di competenza, pieni di soldi, imbottiti di aspirazioni e di ambizioni, erano affluiti al gioco ed entrati nell'orbita delle diverse società... Affiorò dapprima, prese piede in seguito, prevalse infine, la tendenza a risolvere tutti i problemi della creazione, dell'esistenza e del funzionamento di una squadra, puramente col denaro». Pozzo parlava del calcio dell'immediato Dopoguerra, ma sembra la fotografia del calcio di oggi.
Un operaio dell'epoca portava a casa 15 mila lire. Il rapporto era dunque di 5,3 a 1. Mazzola, cioè, guadagnava 5,3 volte in più rispetto al signor Bianchi che lavorava alla catena di montaggio della Fiat. Che succede oggi?
E' presto detto: Ibrahimovic, fuoriclasse paragonabile al Mazzola del Dopoguerra, si mette in tasca 920 mila euro al mese; un operaio se la deve cavare con 1000 euro. Il rapporto è quindi di 920 a 1. La sproporzione è evidente ed è difficile giustificarla con i ricavi che garantiscono i campioni attuali: se fosse così remunerativo avere un top player alle proprie dipendenze i bilanci delle società non sarebbero costantemente in rosso. Sia chiaro, tuttavia, fin da subito: non è colpa dei calciatori se guadagnano cifre astronomiche. Loro chiedono legittimamente e le società accettano: è un diabolico patto a due.
Incrementi Tornando all'anno 1946, non si può certo dire che Valentino Mazzola non fosse un privilegiato. Abitava in un appartamento di extralusso, aveva una bella automobile e tutti gli agi possibili. Tenete presente che nel 1946, in Italia, circolavano poco meno di 150 mila macchine e il mezzo di locomozione più utilizzato era ancora la bicicletta. Il Paese era in gran parte agricolo, c'erano lotte tremende tra contadini e mezzadri, scioperi, battaglie di piazza. Il prezzo della guerra appena terminata era alto da pagare, le famiglie normali mangiavano la carne una volta alla settimana, non andavano certo al ristorante, né in vacanza. Insomma, anche a quel tempo la differenza tra un calciatore e un uomo del popolo era molto evidente. Ma non così evidente come oggi. Un chilogrammo di pane, ad esempio, costava 45 lire (0,02) e da allora è aumentato fino a 1,2 euro: un incremento di 60 volte, mica di 920 come lo stipendio di Ibrahimovic rispetto a quello di un operaio.
Primo professionista Facile cadere nella demagogia, quando si trattano simili argomenti. Allora si deve ricordare che il calcio, da sempre, è una macchina che viene mossa dal denaro. Il primo giocatore professionista fu Virgilio «Viri» Rosetta: nel 1923 passò dalla Pro Vercelli (dove non percepiva una lira) alla Juventus del senatore Giovanni Agnelli per la somma di 50 mila lire. A lui, che era pure ragioniere e a cui assicurarono un impiego (fittizio) in una fabbrica, andarono mille lire al mese. Scoppiò uno scandalo per le cifre che erano in ballo e perché c'era anche un'irregolarità nel contratto. Ma resta l'idea che quello fu il momento in cui il denaro entrò prepotentemente nel mondo del calcio. E da allora non lo abbandonò più. Per intenderci su quanto elevato fosse lo stipendio di Rosetta nel 1923, tenete presente che il testo di una canzone del 1939, cioè sedici anni dopo, recitava «Se potessi avere mille lire al mese...». Il Trio Lescano, gruppo musicale degli anni Trenta, metteva in cassaforte soldi a palate. Una delle componenti, Sandra Lescano, raccontò a Natalia Aspesi di Repubblica che nel 1939 guadagnava mille lire al giorno, quindi 30 mila lire al mese, quindi più del doppio rispetto a un operaio. La differenza tra l'ambiente artistico-sportivo e quello «normale», dunque, c'è sempre stata. Esisteva, però, un maggiore equilibrio.
Pozzo di saggezza Per capire il mondo del pallone e le sue storture si deve rileggere un saggio firmato più di mezzo secolo fa da Vittorio Pozzo, commissario tecnico della Nazionale campione del mondo nel 1934 e nel 1938. «Dirigenti privi di competenza, pieni di soldi, imbottiti di aspirazioni e di ambizioni, erano affluiti al gioco ed entrati nell'orbita delle diverse società... Affiorò dapprima, prese piede in seguito, prevalse infine, la tendenza a risolvere tutti i problemi della creazione, dell'esistenza e del funzionamento di una squadra, puramente col denaro». Pozzo parlava del calcio dell'immediato Dopoguerra, ma sembra la fotografia del calcio di oggi.
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